Di Chief Financial Anlayst Massimo Moschella
In data 17 marzo 2021 il Parlamento italiano ha pronunciato il primo si al decreto Ucraina, che prevede, oltre all’invio delle armi e equipaggiamenti, gli aiuti e le misure per l’assistenza ai profughi. Il provvedimento è stato approvato dalla Camera con 367 voti a favore, 25 contrari e 5 astensioni. Sono stati 231 i deputati che non hanno partecipato al voto mentre i deputati Dall’Osso (Fi), Segneri e Lorenzoni (M5s), e Fratoianni (Leu) sono intervenuti in aula per dichiarare il voto contrario. Fassina (Leu) si è invece astenuto.
Il Pd con 69 presenti su 97 appartenenti al gruppo e 7 dichiarati in missione, registra la più alta percentuale di presenza con il 71,13%. Segue il M5S con 106 votanti su 155 componenti (21 in missione) 68,39% di presenza complessiva; poi Fdi con il 67,57%, presenti 25 su 37 (3 in missione). Iv conta 18 presenti su 28 (9 in missione) 64,29% di presenza; Coraggio Italia 14 su 22 (3 in missione) presenza 63,64%; Forza Italia 49 su 80 (9 in missione), percentuale 61,25. Per la Lega erano in aula 79 deputati su 133 (17 in missione) percentuale presenti 59,40. Poi Leu 5 votanti su 10 deputati che appartengono al gruppo con il 50% di presenti e infine il gruppo Misto con il 48,48 di presenti, ovvero 32 deputati votanti su 66.
In sostanza, saranno inviati sistemi anticarro e antiaereo, missili Stinger antiaerei, missili Spike controcarro, mitragliatrici Browning, mitragliatrici Mg, mortai e munizioni, per un valore stimato tra i 100 e 150 milioni. Questo è il materiale bellico formalmente dichiarato ad oggi. Lo stanziamento appare tuttavia destinato a lievitare. Evidentemente deteniamo riserve occulte di bilancio. In periodo covid non c’erano stanziamenti sufficienti per le aziende costrette a chiudere in rispetto dei lockdown forzosi. Adesso si riscopre una inaspettata capacità di risorse finanziarie.
Ricordiamo che la materia è regolamentata complessivamente da una vecchia ma ottima legge, la n. 185 del 9 luglio 1990, “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”. Una legge considerata, sulla carta, fra le più restrittive e severe del mondo. All’articolo 1 prevede che “L’esportazione, l’importazione e il transito di materiale di armamento nonché la cessione delle relative licenze di produzione devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia. Tali operazioni vengono regolamentate dallo Stato secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Per questo, si legge ancora, “l’esportazione, l’importazione e il transito dei materiali di armamento, nonché la cessione delle relative licenze di produzione, sono soggetti ad autorizzazioni e controlli dello Stato” e “sono vietati quando siano in contrasto con la Costituzione, con gli impegni internazionali dell’Italia e con i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo e del mantenimento di buone relazioni con altri Paesi, nonché quando manchino adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali”.
In ogni caso l’esportazione ed il transito di materiali di armamento sono vietati “verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere”.
Rafforza le suddette previsioni l’art. 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Ma allora l’Italia rinuncia ad ogni tipo di guerra?
L’art. 11 va letto assieme all’art. 52 che pone la difesa della patria quale “sacro dovere” e con l’art. 78 che affida al Parlamento la competenza a dichiarare lo Stato di guerra.
Quindi, se da un lato viene energicamente (in teoria) ripudiata la forza bellica come strumento di offesa alla libertà d’altri popoli o come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, dall’altro, permane la facoltà di ricorrere all’uso delle armi per contrastare un altrui ingiustificato attacco all’indipendenza o all’integrità del proprio territorio, coerentemente con il principio di autodifesa sancito dalla Carta delle Nazioni Unite del 1945.
Insomma, l’Italia non rinuncia ad una guerra difensiva ma condannerebbe per principio la guerra come strumento di offesa (il condizionale oggi appare d’obbligo).
Nella parte in cui si parla “del ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, anche in questo caso si afferma il divieto per l’Italia di utilizzare la guerra, ma non di utilizzare altri strumenti (come la rottura di relazioni diplomatiche, sanzioni economiche etc.), che non possono rientrare certamente nella categoria di aggressione armata.
Infine, di fondamentale importanza è il passaggio in cui si afferma che la Costituzione “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”: infatti, è stato possibile per l’Italia limitare la propria sovranità in favore di organizzazioni internazionali create proprio per promuovere la pace e la giustizia.
Questa determinazione si adatta perfettamente con la scelta del ripudio alla guerra, in quanto il perseguimento di pace e giustizia tra le Nazioni è certamente un modo ottimale di allontanare lo spettro della guerra. Il problema nasce laddove, nel concreto, alcune organizzazioni di cui l’Italia fa parte non solo perseguono la pace ma garantiscono la sicurezza internazionale, anche attraverso l’uso della forza, in alcuni casi con attività preventiva. Per questo alcuni sostengono che la limitazione di sovranità da parte dell’Italia, in favore di alcuni organismi internazionali, non sia perfettamente corrispondente al dettato costituzionale, ovvero alla differenza tra l’“assicurare la giustizia tra le Nazioni” e il “garantire la sicurezza internazionale”, nonostante questo sia presente all’interno della Carta delle Nazioni Unite. In questo contesto poi, va considerata tutta una serie di trattati e norme internazionali che hanno in parte incrinato il ruolo gerarchico della Costituzione, e che anche su questo tema ha prodotto degli sconvolgimenti all’ordinamento giuridico interno.
E allora come e perché si decide di inviare armi alla belligerante Ucraina?
Il provvedimento approvato di recente viene giustificato surrettiziamente con il ripescaggio degli articoli 3, 4 e 5 del Trattato Nordatlantico che consentono alle parti di aiutarsi per accrescere “la loro capacità individuale e collettiva di resistere ad un attacco armato”. Dovrebbe essere infatti la Nato a organizzare il ponte aereo per la consegna delle armi. Ma cosa c’entri la Nato e il trattato Atlantico con l’Ucraina nessuno lo spiega.
Tuttavia, l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, citato dalla legge 185, riconosce che “nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”.
E così lo scorso 2 marzo si è riunita d’urgenza l’Assemblea generale delle UN che, con 141 voti favorevoli su 193 Paesi votanti, cinque contrari (Russia, Bielorussia, Eritrea, Corea del Nord, Siria) e 35 astenuti, tra cui Cina e India, ha approvato una risoluzione con la quale si chiede che Mosca “cessi immediatamente il suo uso della forza” e ritiri “subito, completamente e in modo incondizionato” le proprie unità militari.
Qui sotto l’esito completo della votazione. Tutto ciò potrebbe significare, in sostanza, che la stragrande maggioranza dei paesi del mondo è contraria all’invasione russa dell’Ucraina. Senonché la mozione, per avere valore legalmente vincolante, doveva essere approvata dai due terzi dei Paesi membri.
Ma è evidente che, al di là dei meccanismi giuridici, appare volontà di una certa parte dell’occidente rispondere a bandito con bandito e mezzo. E dunque molti paesi stanno soffiando sul fuoco dell’escalation militare con visibilità parziale sia sulla consistenza delle forze militari russe che sugli esiti possibili di un confronto armato.
Peraltro la storia recente ci ha già mostrato alcune interpretazioni estensive dell’art. 5 del Trattato Nordatlantico. La prima è stata l’intervento del 1999 nell’ex Jugoslavia. L’operazione, denominata Allied Force, fu varata dall’Alleanza senza una risoluzione Onu a sostegno e con il richiamo a ragioni umanitarie (la protezione dei civili in Kosovo) che da un ventennio dividono gli esperti di diritto internazionale. Quell’intervento ha avuto strascichi geopolitici con cui l’Europa sta facendo ancora i conti: si pensi alla posizione “neutrale” della Serbia sull’invasione Russa in Ucraina. E si pensi soprattutto a Putin, che sta usando questo precedente per giustificare l’attacco a Kiev, anch’esso senza risoluzione Onu, nel nome del presunto “genocidio” della minoranza russofona nel Donbass.
E l’occidente sta fingendo ancora di ignorare questa piaga purulenta.
C’è poi il caso dell’Afghanistan: in quel caso, la guerra sotto l’egida della Nato fu giustificata in nome degli attentati terroristici dell’11 settembre negli Usa. Secondo la posizione apodittica condivisa all’epoca dall’Alleanza, per quanto la mano dell’attacco alle Torri gemelle e al Pentagono fosse di un’organizzazione privata (al-Qaeda), il governo talebano di Kabul ne era stato complice. Da qui, la valutazione dell’attentato terroristico come un attacco armato a un Paese membro (gli Stati Uniti) da parte di un altro Stato e il dispiegamento degli eserciti della Nato. Può questa strada essere intrapresa con la Russia? Alcuni esperti, citano eventuali sabotaggi e attacchi informatici all’interno della Polonia, per esempio, che potrebbero essere letti come atti terroristici, anche se non armati. Ma il ragionamento sembra molto vago.
Certamente da queste minacce non si è lasciato intimorire Mr. Lavrov, Ministro degli Esteri della Federazione Russa, il quale ha affermato che qualsiasi carico che contenga armi destinate all’Ucraina sarà considerato dalla Russia “un obiettivo legittimo”. “Il trasferimento di S-300 sovietici da altri paesi all’Ucraina è impossibile, illegale, Mosca non lo consentirà”.
Con la sigla S-300 (nome in codice NATO: SA-10 Grumble) si identifica una famiglia di sistemi d’arma antiaerei a lungo raggio di fabbricazione sovietica che ancora sono in uso in alcuni ex paesi del Patto di Varsavia. E la Slovacchia, per non farci mancare niente, si dice subito disponibile a cedere proprio questi sistemi missilistici in cambio dell’assicurazione che gli stessi siano sostituiti immediatamente con armamenti occidentali.
Questi i fatti che sapete tutti.
La mia vuole essere una breve riflessione sul ruolo dell’Italia all’interno di un conflitto che, sebbene cada su spazio geografico europeo, coinvolge un paese, l’Ucraina, che non è membro né della Ue né della Nato, in opposizione a una delle maggiori potenze militari del pianeta, la Russia. Particolare che, in via prudenziale, non riveste un’importanza secondaria. Diceva Umberto Eco, quando i veri nemici sono troppo forti, bisogna pur scegliere dei nemici più deboli. E non mi sembra che noi italiani stiamo facendo tesoro di questa massima.
Anzi direi che stiamo rimarcando la nostra indole di valvassini di un’Europa che procede come sempre in ordine sparso, che è per di più priva di un esercito e un armamento comunitario, e che appare, non senza imbarazzo (almeno per me), il burattino del ventriloquo americano. Il quale tace e osserva da lontano lo tsunami che sta montando in Europa dopo aver insediato alla presidenza dell’Ucraina un uomo ad esso fedele e armato più o meno segretamente il paese per anni.
Non c’è dubbio che la Russia critica l’imperialismo statunitense, eppure monitora i suoi paesi confinanti e all’occorrenza invade e occupa i suoi vicini più temibili e si impegna spesso e volentieri in attacchi informatici contro infrastrutture strategiche.
Sul fronte opposto gli Stati Uniti, che criticano l’autocrazia Di Putin, negli ultimi decenni hanno rovesciato governi democraticamente eletti se solo minacciavano i loro interessi, hanno costruito basi e si sono impegnati in guerre e operazioni militari (ufficiali e non) in centinaia di Paesi in tutto il mondo, e hanno investito miliardi di dollari in spese militari mentre molti dei suoi cittadini vivono senza assistenza sanitaria, alloggi o sicurezza alimentare. Entrambi i Paesi hanno rinforzato eserciti, alleanze militari e arsenali nucleari per sfidare l’altro. L’Ucraina, in questo contesto, è solo una pedina utilizzata da entrambe le parti per togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Tra questo digrignare di denti l’Italia mi appare solo un vaso di terracotta costretto, dalle alleanze ma soprattutto dalla sua posizione geografica che ha indubitabile portata strategica, a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.
La rituale figura meschina la fanno i nostri media, da Repubblica a La Stampa passando per i programmi Rai e Mediaset, che infilano l’elmetto e fanno il tifo per la guerra censurando ogni dichiarazione filorussa e dando spazio solo alle pretese ragioni occidentali.
Le telecamere ci sono solo se reciti a soggetto, e naturalmente il microfono è sempre pronto per il politico di turno che ha votato tutti i bilanci militari, e non ultimo l’invio delle armi in Ucraina, ma dice che ci tiene tanto alla “pace”.
Sembra quasi di moda mostrarsi vicini alle posizioni espresse dal Pentagono statunitense propenso a sostenere che Putin non si fermerà a Kiev, che allargherà le sue operazioni militari anche alle vicine Georgia e Moldavia, e forse anche in Bosnia e Kosovo, e che parrebbe pronto ad utilizzare armi chimiche (è un refrain già utilizzato per giustificare l’invasione in Iraq). Il punto è che, come nel caso dell’Ucraina, tutti questi Stati non sono ancora parte della Nato. Secondo le regole che governano l’Alleanza, infatti, perché scatti automaticamente un intervento militare occorre che almeno uno dei suoi membri sia vittima di un attacco armato (il famoso Articolo 5 del Trattato). Non è previsto, invece, uno stesso automatismo se l’attacco riguarda un Paese extra-Nato. Finora, come è noto, buona parte dei Paesi alleati intendono limitarsi all’invio di armi all’esercito ucraino sfruttando la piattaforma della Polonia, che pare ben desiderosa di fungere da base per il sostegno occidentale all’esercito di Kiev, un po’ come la Bielorussia sta facendo con le truppe di Mosca. Tra le armi messe a disposizione dell’Ucraina, però, non ci sono ancora aerei (droni si), a dispetto di quanto annunciato qualche giorno fa dall’Alto rappresentante dell’Ue, Josep Borrell, molto probabilmente su “suggerimento” di Varsavia. La questione aerea sembra sempre più la linea rossa da non superare se si vuole evitare una guerra vera e propria tra la Nato e Mosca (e i suoi alleati). La richiesta di una no-fly zone da parte di Kiev non è stata accolta, per ora, dall’Alleanza proprio per questa ragione: istituirla significherebbe dover abbattere aerei russi e questo darebbe l’occasione a Mosca di fare lo stesso con obiettivi militari Nato, per esempio in Polonia. Rendendo così inevitabile l’articolo 5.
Non sono i nostri nemici che ci spaventano, ma i nostri punti deboli (Valeriu Butulescu).
Il sito Global Firepower si sforza di prendere in analisi oltre 50 fattori per determinare il potenziale militare offensivo dei principali paesi del mondo (136 quelli monitorati).
Ha così elaborato l’indice della forza militare (PoweIndex) che tiene conto di fattori quali la disponibilità e la diversità di mezzi e armamenti (aerei da combattimento, carri armati, unità navali, ecc.), il personale militare complessivo, il budget destinato alla difesa e la popolazione totale (considerazione chiave se rapportata alle potenzialità di manodopera in casi di necessità), l’avanzamento tecnologico della nazione, le condizioni geografiche, logistiche, industriali e finanziarie, ed ovviamente il numero e l’influenza degli alleati internazionali.
Combinando tali fattori, viene idealizzato un “punteggio perfetto” di 0.0000, realisticamente irraggiungibile nell’ambito della formula. Le nazioni che più si avvicinano a tale punteggio, sono quindi da intendersi quelle più “potenti” militarmente.
La classifica è in continuo e costante aggiornamento. Le variazioni possono essere dovute al logorio di attrezzature, alla diminuzione di forza lavoro, all’instabilità finanziaria dei paesi infine ad eventuali flussi di popolazione o risorse. Vi proponiamo, nella figura che segue, la classifica 2022 che deve essere naturalmente letta con molta cautela.
Dubitiamo infatti che sia interesse di qualsiasi paese denunciare consistenza e efficienza del proprio arsenale bellico. Pertanto i dati utilizzati per calcolare il PoweIndex appaiono complessivamente poco attendibili.
E tuttavia qualche riflessione spannometrica ce la consentono.
Secondo questa classifica gli Stati Uniti vanterebbero il miglior indice di forza militare con una spesa per armamenti di 716 miliardi di dollari. La Russia seguirebbe distanziata di poco con un budget 2021 pari a soli 44 mld. Sarà vero, non sarà vero?
Quello che appare incontestabile però è che se, ammesso e non concesso, si dovesse realizzare il collante necessario per far convergere verso comuni obiettivi strategici Russia, Cina e India, non ce ne sarebbe più per nessuno. Militarmente e commercialmente.
Sorprendente invece la posizione della Francia che nella lista è settima, a pari merito sostanzialmente con il Regno Unito, e la prima tra gli Stati membri Ue.
Undicesima addirittura l’Italia (?!) e sedicesima la Germania.
Non siamo in grado di verificare la bontà di tutti i numeri prospettati dal sito Global Firepower. Uno però possiamo affermare di conoscerlo abbastanza bene: la consistenza e l’efficienza della flotta navale italiana accreditata sulla slide di ben 143 unità!
A questo proposito, da attenti osservatori mi è stata segnalata l’audizione dinanzi alle commissioni congiunte di Camera e Senato della Repubblica Italiana del Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, Amm. Enrico Credendino.
Giovedì 10 marzo Credendino è stato invitato a declinare al governo lo stato dell’arte della nostra marina, compito al quale l’Ammiraglio non si è certo sottratto.
Anzi. Il suo monologo è stato infarcito di dati aggiornati e arricchito di slides esplicative che pubblichiamo di seguito.
Le unità in nero sono quelle effettivamente in servizio; quelle in rosso si riferiscono alle unità che devono essere dismesse per anzianità. Nella terza e ultima colonna sono indicate le unità da sostituire. La flotta navale italiana conta dunque 57 unità altro che 143!
Nel 2014, racconta Credendino, fu varato un piano di ammodernamento generale perché la nostra marina rischiava di sparire: 45 unità erano in procinto di uscire per fine carriera mentre solo 15 erano in programma di entrare in servizio.
Furono così stanziati 5,4 mld di euro per la fornitura di:
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7 pattugliatori
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1 unità anfibia
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1 nave di supporto logistico
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2 mezzi navali veloci per le esigenze degli incursori.
La prima di queste unità, un pattugliatore, dovrebbe essere stato consegnato il 18 marzo. Delle altre non se ne sa niente.
Successivamente furono stanziati altri 19 mld che dovrebbero consentire di incamerare altre 11 nuove unità, ma entro il 2030! E in ogni caso a fronte della dismissione di 23 natanti.
Resta da stabilire, a detta di Credendino che fissa perplesso le sue stesse slides, se questo modello operativo sia ancora attuale alla luce della crisi innescata dal conflitto russo-ucraino.
In ogni caso, anche alla luce degli stanziamenti accantonati e delle commesse fatte, appaiono infatti evidenti le prime due criticità della marina italiana:
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“la carenze di navi con capacità antiaeree (DDG);
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“la carenze di navi con capacità antisommergibile”.
Le navi con capacità antiaeree sono quattro sulla carta ma a giugno di quest’anno due di esse avranno esaurito la loro funzionalità operativa. Sempre a giugno scadranno anche i missili antiaerei. Rimarranno in attività il Dora e il Duilio, fondamentali per garantire la scorta della nostra unica portaerei e necessari per le operazioni dei gruppi anfibi. Senza di essi questi gruppi non potrebbero andare per mare.
I DDG citati sono altresì gli unici mezzi che allo stato garantiscono la difesa contro i missili balistici eventualmente lanciati contro il territorio italiano. Ad intuito, del tutto insufficienti. E’ per questo che ad essi si aggiungono quattro navi americane idonee allo scopo che incrociano nel Mediterraneo.
Le navi italiane con capacità antisommergibile dovrebbero, in linea teorica, essere nove ma al momento sono pari a zero. L’Italia dunque è priva di difesa contro i sommergibili nemici.
Da rimodulare appare anche la consistenza degli F35 e degli elicotteri medi e pesanti.
Siamo altresì completamente privi di aeromobili a pilotaggio remoto (droni). Dovremmo averne almeno 14 ma non ne abbiamo alcuno. Essi appaiono essenziali perchè consentono di effettuare la ricognizione e scoperta di minacce in zone pericolose senza mettere a repentaglio la vita dei piloti.
Al momento siamo l’unica marina al mondo che ne risulta sprovvista.
Nel 2012, nel corso dell’operazione militare europea ATALANTA in Libia, siamo stati costretti ad inviare nostri elicotteri per monitorare la situazione a terra con gravissimi rischi per l’incolumità dei nostri equipaggi. Al contrario i nostri alleati adoperavano i droni Scan Eagle a controllo remoto per capire come si stavano attrezzando i pirati sulla costa.
Inoltre i veicoli anfibi che sono in servizio vanno rinnovati, cioè gli AAV devono essere sostituiti con i VBA.
Ricapitolando, nei prossimi quindici anni sarebbero necessari almeno 9,3 miliardi di euro per completare il processo di rinnovamento della flotta. Tale stima si palesa però da subito incompleta e insufficiente perché non tiene conto degli oneri per il mantenimento delle capacità operative (6,9 mld) e degli aggiornamenti hardware e software dei sistemi operativi.
In ragione di ciò il bisogno complessivo va ricalcolato in 16,2 mld di euro (averceli!).
Il personale della marina rappresenta l’ennesimo punto critico.
Esso ha subito tagli lineari senza tenere conto dell’evoluzione dello scenario geopolitico internazionale.
Sicché il personale militare evidenzia una consistenza attuale di 28.905 e una carenza di 39.000 unità.
Il personale civile registra una carenza del 60% rispetto agli effettivi che servirebbero, e questo accade perché ci sono impiegati che vanno in pensione ma il blocco delle assunzioni non consente nuovi ingressi.
Altra nota dolente sono gli arsenali, che costituiscono asset strategici per la difesa del paese e che appaiono destinati a chiudere in mancanza di idonei interventi. Quelli di La Spezia, Taranto, Brindisi e Augusta, che assolverebbero infatti alla funzione di garantire l’efficienza della flotta, soffrono anch’essi della sensibile riduzione delle maestranze e del mancato adeguamento tecnologico della attrezzature.
Occorrerebbero, nei prossimi dieci anni, ulteriori 350 milioni di euro per ammodernare gli impianti e completare l’aggiornamento dei macchinari.
Appare infine necessario adeguare anche le basi navali (banchine e fondali) alla nuova flotta che ha pescaggi maggiori. Spesa necessaria stimata: 500-600 milioni di euro.
Insomma, la marina militare italiana, da qualunque parte la si guardi, è una forza che fa acqua da tutte le parti e che appare sintomo del degrado economico, strategico e ideologico che attraversa l’Italia. Una flotta composta da 57 unità che si avviano mestamente verso la progressiva dismissione non è in grado neanche di assicurare la difesa dei confini nazionali. Figurarsi partecipare a missioni internazionali con obiettivi più ambiziosi.
Per amore di patria non intendiamo indagare sul resto delle nostre forze armate.
Piuttosto, visto lo stato delle finanze italiche e la mancanza di una seria forza militare offensiva – quadro che non muterebbe sostanzialmente neanche aderendo virtualmente ad iniziative belliche della Nato – il nostro paese dovrebbe continuare a ritagliarsi una connotazione sempre più peace oriented e a favorire una composizione diplomatica della crisi in atto.
Minacciare ritorsioni a brutto muso e offendere capi di stato stranieri non si attaglia ad un paese che abbisogna di tutto: petrolio, gas, zucchero, frumento, mais e segale.
Apparirebbe pertanto estremamente saggio chiedere all’Europa di non appiattirsi sulla linea a trazione americana dell’Alleanza Atlantica ma di svolgere un ruolo di “neutralità attiva”, di prendere iniziative urgenti e significative per ottenere una de-escalation immediata della tensione e avviare la ricerca di un accordo politico negoziato nel rispetto della sicurezza e dei diritti di tutte le popolazioni coinvolte, chiarendo la propria indisponibilità a sostenere avventure militari. Che non ci possiamo permettere.
Massimo Moschella